di Andrea Scanzi inviato a Montalcino (Si) Qualcuno non finge neanche di stupirsi, qualcun altro spera che sia “solo” una frode e non un vero e proprio taroccamento. Montalcino, di nuovo, diventa capitale di scandali enologici. “Credevamo di aver già pagato dazio una volta per tutte durante il Vinitaly 2008”, dicono alcuni produttori. Constatata la frode, la speranza in paese è che almeno stavolta le uve non autorizzate arrivino comunque dalla zona e non da regioni diverse. Nei giorni scorsi sono stati sequestrati 165.467 litri di vino: 220.600 bottiglie, di cui 75.620 litri di Brunello e 89.847 di Rosso di Montalcino. Valore attorno al milione di euro.
PROTAGONISTA del presunto raggiro non è un enologo, ma un consulente di molte aziende: si impossessava illegalmente della documentazione attestante la Docg e la associava a partite di uva e vino comune, che vendeva alle cantine durante le fasi di vendemmia e invecchiamento. È stato denunciato per frode in commercio, accesso abusivo a un sistema informatico, appropriazione indebita aggravata e continuata e reati di falso. Sarà una vendemmia difficile, soprattutto nel Centro-Nord. L’annata 2014 avrà gli stessi limiti della 2002, quando non poche aziende blasonate rinunciarono a produrre i vini di punta (ad esempio il Barolo) per le piogge continue. La 2014 sarà addirittura peggiore, perché ha continuato a piovere tutta l’estate. I vini – con ovvie eccezioni – risulte – ranno scarichi, con basse concentrazioni polifenoliche, meno eleganza e meno gradazione alcolica. A Montalcino la grandinata del 12 giugno ha compromesso parte dei raccolti, tenendo conto che il Sangiovese è relativamente spargolo e dunque più soggetto a muffe. Lo scandalo, per quanto meno grave dei precedenti, è in qualche modo emblematico.
La Toscana è ciclicamente epicentro di una propensione al taroccamento, vuoi per assecondare la moda dei vini “morbidoni” e vuoi per una tendenza a non accontentarsi mai. Neanche in quelle zone d’Italia in cui la natura sarebbe in grado di fare tutto da sola e basterebbe rispettarla, senza ricorrere a sofisticazioni in cantina e sbornie cafone da barrique. Chi ha buona memoria ricorda la puntata di Report di fine 2004, in cui – complice la meritoria denuncia di Sandro Sangiorgi, uno dei più grandi esporti del settore – si scopriva come di “vero” non ci fosse poi molto nell’enologia italiana. Quella situazione troppo spesso compromessa ha generato una reazione vibrante e per certi versi ugualmente estrema, costituita dal diffondersi dei cosiddetti “vini veri” o “naturali”. Niente più fermentazioni controllate, lieviti selezionati e abracadabra chimici, ma un pauperismo ostentato che oltrepassava le ambiguità del biologico e inseguiva una naturalità totale. Ora biodinamica e ora no.
IL CASO di Montalcino è davvero esemplificativo. Sebbene l’ultimo scandalo stia già allontanando qualche cliente, il commercio resta florido. A dominare sono le aziende chic, così perfette da risultare quasi respingenti. Prezzi esosi e una raffinatezza che – alla lunga – stucca. Del resto la regione è quella dei Supertuscans, “vinoni” fatti come se fossimo a Bordeaux o in California, col Sangiovese ritenuto “troppo tannico” e dunque ingentilito dai soliti vitigni internazionali (su tutti Merlot). C’è però chi resiste. Avamposti di resistenza e utopia che si oppongono alle mode, difendendo con le unghie e con le idee (più che con i denti) uno spicchio di terra troppo benedetto per essere involgarito. Basta visitare aziende garbatamente ribelli come Il Paradiso di Manfredi, Campi di Fonterenza o il Podere Sante Marie dei coniugi Colleoni, trasferitisi da Bergamo venti anni fa con il sogno non barattabile di una enologia semplice e sostenibile (anche nel prezzo).
Squarci improvvisi di natura salva e vino autentico. L’eno – logia italiana, da Nord a Sud e ancor più in Toscana, non si divide tanto in “modernisti” e “tradizionalisti” ma in chi rispetta la natura e chi no. Questi ultimi hanno produzioni esigue, bottiglie poco glamour e vini non necessariamente impeccabili. Sono pochi e litigano tra loro come i partitini di sinistra. Non avendo paracadute in cantina, se l’annata è cattiva devono dire addio a metà raccolto o giù di lì: è accaduto ad Angiolino Maule a Gambellara, uno dei pionieri dei “naturalisti”. Eppure resistono.
LI TROVI a Sarzana, come Stefano Legnani, e nel parmense, come Camillo Donati. A Castiglione Tinella, come Ezio Cerruti, e a Castiglion Fiorentino, come Arnaldo Rossi. Ultimi passeri sul ramo. Uno dei più bravi a fotografarli è stato il cineasta americano Jonathan Nossiter, dieci anni fa in Mondovino e più recentemente nel riuscito Resistenza Naturale. Guarda caso, ha per scenario anzitutto la Toscana. Nossiter li definisce così: “So – no contadini moderni rivoluzionari, in grado di vedere la propria attività agricola in un quadro politico, sociale, ecologico ed economico molto più ampio e complesso di quanto non potessero fare i contadini fino a qualche generazione fa. La loro strenua lotta per la sopravvivenza del gesto artigianale indipendente e autentico, in un mondo post-globalizzato, mi ha emozionato”. Al netto di integralismi e retorica, il percorso di questi contadini illuminati pare in qualche modo necessario. La loro è una strada insidiosa, ancor di più in annate impietose come questa, ma smisuratamente autentica e non di rado commovente. Libera.