di Antonello Caporale Sapevano ma tacevano. Sapevano ma non capivano, non leggevano, non si incuriosivano. Sapevano. Sapeva il manager dell’ospedale, sapeva il direttore sanitario, sapevano i saggi che erano giunti a Potenza proprio per indagare sul clima di litigiosità nel reparto di cardiochirurgia. Sapevano gli altri medici, e gli infermieri, i portantini e forse anche i degenti. La morte della paziente E.P. avvenuta il 28 maggio del 2013 durante un’operazione di sostituzione della valvola aortica era divenuto nel capoluogo lucano un tronco, come tanti altri, che fluttuava nelle acque scure della malasanità. Quella morte e quel cadavere si sono però incontrati con la vita di Fausto Saponara, medico e cardiochirurgo, che conduce da anni la sua personale battaglia per avere accesso, al pari dei colleghi, in sala operatoria. Quando è stato svelato il contenuto di una registrazione nella quale un medico dell’equipe che quella notte portò a compimento la sfortunata operazione indicava il nome di chi aveva operato (il primario Nicola Marraudino) con parole crude, impossibili da dimenticare, “abbiamo ucciso quella donna e io l’ho permesso”, Saponara, l’unico a rimanere sempre lontano dal bisturi, è stato il primo a essere incolpato dalla direzione generale. Saponara, interlocutore del medico che si confessava, è divenuto – ipso facto – l’autore della registrazione carpita, colui che l’ha divulgata arrecando così un grave danno d’immagine all’ospedale San Carlo.
Quindi sospeso, anzi risospeso perché già sul suo capo grava un primo procedimento disciplinare, sempre per aver violato la privacy e il codice ospedaliero. Dunque, per Saponara l’anticamera del licenziamento. La pignoleria di un uomo che ha rotto il muro di protezioni Ecco come a Potenza, città troppo piccola con poteri troppo grandi e, forse, con troppi soldi da spendere, si sviluppa una realtà capovolta: non è la negligenza, la distrazione colpevole quando non proprio l’approssimazione, a recar danno all’immagine di quell’ospedale. Non è in gioco la responsabilità del primario di quel reparto, ma la pignoleria ossessiva di quest’uomo che rifiuta di essere emarginato nel lavoro quotidiano (tecnicamente si dice: demansionato), e avanza con tutte le armi che dispone la richiesta di essere messo nelle condizioni di svolgere la funzione per la quale è stato assunto: cardiochirurgo. “Cosa direbbe lei e cosa farebbe lei se il suo direttore le requisisse il taccuino e la penna senza una parola per giustificare un atto così grave? Si opporrebbe? Chiederebbe conto? Avanzerebbe la domanda di essere messo alla prova e di essere giudicato per quel che fa non per quel che si presume sappia fare? È ciò che ho tentato di ottenere. Il risultato eccolo qua: io il colpevole, gli altri innocenti”.
Fausto Saponara, infragilito da questa avventura, è il marito di Gerardina Romaniello, presidente del Tribunale del riesame, fama di magistrato integro, dal carattere forte, che negli anni ha aperto fronti –spesso vittoriosi – con il potere locale. “Io non ho svelato alcuna registrazione e ciò che sapevo l’ho comunicato per iscritto e in più occasioni al direttore generale e alle altre autorità dell’ospedale, com’era mio dovere. E se l’ho fatto è perché volevo documentare la gravità dell’episodio, adempiere a un mio dovere etico e insieme mostrare come fosse ingiusta la decisione del primario di escludermi dalla sala operatoria. Dopo anni di permanenza mi scriveva, nella scheda di valutazione, che ero ancora troppo debole professionalmente, e nonostante avessi svolto positivamente i pochissimi interventi affidatimi avevo ricevuto una pagella al limite della sufficienza. Nonostante una sentenza del giudice del lavoro – prosegue il medico – mi avesse dato ragione e riconosciuto un risarcimento del danno patito, credo circa 350mila euro, nonostante un giudice dell’esecuzione avesse ordinato al mio primario di restituirmi alla attività per cui vengo retribuito, mi vedo bollato da lui come incapace. Mi ribello e scrivo al direttore generale”.
È il 20 novembre dell’anno scorso quando Saponara rivela l’accaduto in sala operatoria. Episodio contenuto dentro un atto di citazione al primario Nicola Marraudino – notificato per conoscenza all’azienda – nel quale si chiede il risarcimento del danno per la mancata ottemperanza all’ordinanza del Tribunale che imponeva il suo utilizzo in sala operatoria. Una seconda volta, il 3 marzo di quest’anno. Saponara chiedeva al direttore generale l’annullamento della scheda di valutazione redatta dal primario. E insisteva nel ricardo di quel fatto. È vero o no che? La terza volta il 24 marzo. Niente e niente. Le carte bollate scorrono inutili. Nessuno fiata. Tre saggi per fare luce sul clima in corsia Però giunge a Potenza una commissione di tre saggi che devono svolgere l’attività di audit, cioè indagare sul disagio e offrire all’azienda un percorso di recupero di un clima operoso e fattivo. Saponara viene ascoltato il 29 maggio e illustra la propria posizione. Il 18 agosto invia una lettera agli ispettori: “Intendo far conoscere a codesto collegio, per ogni opportuna valutazione in ordine all’andamento del reparto e alle prospettive di miglioramento, quanto accaduto in occasione di un intervento chirurgico…). Spiega che l’operatore avrebbe lacerato la vena cava e che invece di provvedere alla sutura immediata si era lasciato per circa due ore la vena chiusa in un “clamp” (morsa chirurgica).
Appena informato, il direttore dell’azienda Giampiero Maruggi manda al medico – con la formula di richiesta al direttore sanitario di approfondire il caso – una rispostaccia: “Certo che il segnalante sia ben consapevole della portata delle affermazioni propalate anche con riferimento alla professionalità e alla onorabilità dei professionisti interessati nonché dell’immagine dell’azienda”. L’incredibile si era fatto certo. Sul caso era in corso già da mesi un’indagine della magistratura che aveva portato persino alla riesumazione della salma. Solo il manager non sapeva, e non capiva da quale fonte – quando la notizia era oramai cronaca quotidiana ospedaliera –avesse attinto il medico. In più Maruggi intimava ai “signori componenti del Collegio di non tener conto della suddetta missiva”. Gli inquirenti professionali, i curatori delle anime dei medici, i professionisti che dovevano dare serenità (“attività di audit clinico, organizzativo e di verifica delle professionalità presenti”) a un reparto scosso dal litigio e dal rancore non dovevano prendere in esame il caso più grave accaduto. Una barzelletta. L’inizio della fine di una struttura funzionante Così muore non solo un paziente, ma un intero ospedale che negli anni passati aveva invece goduto di una buona meritata fama. La dichiarazione di Carmine Minale, resa nel 2002, già primario di quel reparto, (anch’egli fu indagato – ma per fatti diversi – e poi completamente prosciolto) dà conto dell’inizio del declino: “Una mattina, paternamente, dissi loro (i medici collaboratori ndr): Sentite, voi lo sapete per me che cosa conta, conta non soltanto l’operazione, conta il paziente da quando entra a quando esce e io ho la sensazione che per molti di voi la cosa più importante è avere ogni giorno un prosciutto da affettare… A voi interessa semplicemente avere un paziente da operare”. Giusta domanda: un paziente da curare o un prosciutto da affettare?