Cè qualcuno che «CentoVetrine» la conosce meglio di casa propria. Parliamo di Roberto Alpi, che nella soap è il duro Ettore Ferri. Non ha partecipato a tutti i 3.118 episodi andati in onda sino a oggi, ma nel cast in attività detiene il record di presenze: quell’8 gennaio 2001, quando tutto iniziò, lui c’era. E ci sarà anche il 15 settembre, quando su Canale 5 partirà la 15ª stagione: è pronto ad affiancare Sebastian Castelli nella lotta contro Carol Grimani, una delle sue ex mogli, e riporterà a casa Vincent, il figlio di Emma, sua attuale compagna. Qual è il primo fotogramma che le torna in mente, se le parlo di «CentoVetrine»? «Era il 2000. Arrivai al centro di produzione di San Giusto Canavese, nel Torinese. Un cancello su rotaie mi si aprì davanti agli occhi: separava la nebbia dalla nebbia. Avrei voluto scappare. Rimasi. Ho fatto bene». Iniziava una nuova vita… «Anche se all’inizio il contratto fu di soli due anni: calcolarono il tempo esatto per ammortizzare la struttura. Poi volevano verificare se avremmo retto: c’erano la competizione con “Vivere” e altre incertezze. Ma il prodotto funzionò subito».
Ha vissuto bene anche la coabitazione con gli altri colleghi? «Ho visto arrivare di tutto: quello che iniziava considerandolo un trampolino di lancio, il fenomeno che voleva rubare spazio agli altri… Ma anche i meno simpatici, in definitiva, alla fine si adattavano, facevano gruppo». Non le chiedo i nomi, ma quanti ne ha detestati, quattro o cinque? «Anche meno, ma le ripeto: alla fine si ammorbidivano. Vivevamo tutti lì nei dintorni, la sera ci invitavamo alle cenette, facevamo un po’ di bisboccia». Oggi non più? «È normale: l’entusiasmo degli inizi scema un po’. Si fa quel che si deve fare e poi si va. Anche perché questi lavori lontani, a lungo termine, stroncano la vita privata». Lei dove abita? «Per anni a Rivarolo Canavese. Oggi a Torino. Sono divorziato e ho una compagna che spesso sta con me. Mia figlia Arianna, 20 anni, studia management alla Bocconi, a Milano. E qui nei dintorni vive anche mia mamma Antonietta, 94 anni. Mi vede ed esclama: “Ecco il mio paradiso!”». Quante scene gira in un giorno? «Dipende: in media dalle tre alle sette». Avete un gobbo elettronico o studiate i copioni? «Nessun gobbo. Si allena la memoria. Sarà l’esperienza, ma io leggo le battute la prima volta durante il trucco, ripasso mentre mi vesto, provo una volta con il partner, e poi giriamo. C’è chi deve studiarle anche due o tre giorni».
Sbaglio o sto parlando con un resuscitato? «Ebbene sì. Una volta sparii misteriosamente, anche se nella realtà ero tentato di passare a “Vivere”, ma rientrai dopo un anno. Un’altra volta me ne andai per stare a Roma con mia figlia. Proposi una soluzione meno traumatica, ma gli autori decisero di uccidermi, salvo accorgersi dopo tre anni che il mio personaggio mancava. Tornai e un flashback rivelò che in realtà mi ero risvegliato dal coma. Un amico mi aveva nascosto in una clinica segreta». Quindi lei è indispensabile… «Mannò, è che alla lunga diventiamo parenti degli spettatori. Si affezionano ed è piuttosto difficile eliminarci». Qual è stata l’evoluzione di «CentoVetrine» negli anni? «All’inizio eravamo un grande magazzino con i negozi e la gente comune. Poi la classe media è sparita e siamo diventati sempre più ricchi e spietati. C’è stata anche la fase dei sequestri di persona, non so quanto gradita. Ora si torna con una cifra più romantica». La crisi ha influito sulla produzione? «Prima giravamo nove mesi e mezzo all’anno, oggi solo sei: prendiamo tre mensilità in meno. E si tende ad aumentare la lunghezza delle singole scene. Ma se il concetto da esprimere è “Ciao, ci vediamo domani”, passando da un minuto a tre, se non hai mestiere tu e gli sceneggiatori, allora può essere un problema. Lo stesso che hanno molte fiction serali, mi sono confrontato con i colleghi. Poi si lamentano se la gente si disaffeziona e guarda…». Indovino: le serie americane! «Esatto. Ma provate a metterci i mezzi e il lavoro delle serie americane, poi vediamo se scappano o no!».